Vajont. Ancora oggi, 60 anni dopo, stiamo a discutere se gli interventi e l’azione dell’uomo impattino o meno sulla natura, sull’ambiente, sul clima. Come se non avessimo imparato niente dai morti del Vajont, e di tante altre pagine nere della nostra storia.

La sera di 60 anni fa, il 9 ottobre 1963, una frana precipitò nel bacino idroelettrico artificiale del torrente Vajont, al confine tra Friuli-Venezia Giulia e Veneto: l’inondazione distrusse i paesi del fondovalle veneto, tra cui Longarone, spazzata via. Morirono 1.910 persone. 487 erano minorenni. La diga era nuova.
Se ricordiamo questa pagina straziante della storia nazionale e veneta non è solo per i numeri di quel disastro, e per l’orrore e il dolore. È anche perché resta un esempio fortissimo dei pericoli dello sfruttamento umano sulla natura. Quella diga, decenni di studi e inchieste lo appurarono, non avrebbe dovuto essere costruita lì, e così. Le cautele idrogeologiche vennero messe a tacere.
Come sempre avviene, anche dopo quella tragedia promettemmo: mai più. Ma, come sempre avviene, ce ne siamo dimenticati. E ancora oggi, 60 anni dopo, stiamo a discutere se gli interventi e l’azione dell’uomo impattino o meno sulla natura, sull’ambiente, sul clima. Come se non avessimo imparato niente dai morti del Vajont, e di tante altre pagine nere della nostra storia.

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